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MODA ECOSOSTENIBILE E ABBIGLIAMENTO ETICO

Al giorno d'oggi non si può parlare di sostenibilità senza affrontare l'argomento anche dal punto di vista della seconda industria più inquinante al mondo, quella della moda.

Secondo un recente sondaggio condotto da Ipsos MORI per conto di Changing Markets Foundation e Clean Clothes Campaign, la maggioranza degli italiani ritiene che i brand dell’abbigliamento (settore che nel 2020 ha avuto un valore di mercato pari a 42 miliardi di dollari) debbano farsi carico dell’impatto delle loro filiere. Ben 2 italiani su 3 non sono disposti ad acquistare capi d’abbigliamento la cui produzione è associata all’inquinamento e addirittura per il 72% i brand dovrebbero garantire che la loro produzione e distribuzione avvenga in modo sostenibile, oltre a garantire condizioni di lavoro dignitose per i dipendenti.

Che differenza c'è tra moda ecosostenibile, sostenibile ed etica? Quali sono le certificazioni per la moda sostenibile?

Se desideri saperne di più e capire come poter fare acquisti più consapevoli, questo articolo potrebbe interessarti, buona lettura!

MODA SOSTENIBILE, ECOSOSTENIBILE ED ETICA

moda sostenibile abbigliamento eticoL'impatto che il mondo della moda può avere sull'ambiente e sulla vita dei lavoratori è ingente.

E' sufficiente un solo dato per riflettere a riguardo: nel 2018 l’industria di abbigliamento e accessori a livello globale ha prodotto più emissioni di Co2 di Francia, Germania e Regno Unito messi insieme: 2.1 miliardi di tonnellate, circa il 4% delle emissioni del pianeta quell’anno. Una cifra che si stima raggiungerà i 2.7 milardi di tonnellate all’anno entro il 2030.

Quando si pensa all'industria della moda non è neppure possibile trascurare le tematiche legate alle pessime condizioni di lavoro a cui vengono sottoposti i dipendenti delle fabbriche produttive in alcune zone del mondo. La sostenibilità, in questo senso, è diventato un tema importante all’inizio degli anni ’90 quando, per la prima volta, si scoprì lo sfruttamento dei lavoratori da parte di alcuni importanti marchi di moda. Per citare qualche esempio, nel 1992 Levi’s fu accusata di non pagare in maniera adeguata i propri dipendenti; nel 1996, toccò a Nike che, nonostante la sua campagna contro il lavoro minorile, si serviva proprio di minori per realizzare alcuni suoi prodotti; e nel 1998 finì nell’occhio del ciclone anche Adidas, accusata di sottoporre i prigionieri politici in Cina ai lavori forzati in cambio di un’esigua somma di denaro. Questi sono solo alcuni degli avvenimenti, la lista è ancora lunga se si considerano gli scandali che sono seguiti alla nascita del fenomeno della fast fashion, ovvero quella moda in cui la produzione avviene più velocemente e al minor costo possibile in modo da cavalcare l’onda delle tendenze del momento.

Le definizioni di moda "sostenibile", "ecosostenibile" ed "etica" vengono spesso utilizzate in maniera inappropriata a causa di criteri molto simili presenti all’interno della filiera, tuttavia una differenza esiste. La moda sostenibile mira a instaurare un rapporto armonioso sia con l’ambiente che con le persone: nel primo caso prende spunto dalla moda ecosostenibile e nel secondo dalla moda etica.

MODA E IMPATTO SULL'AMBIENTE

L’impatto ambientale della filiera della moda è legato al consumo di energia, di acqua, di suolo, di risorse non rinnovabili, all’impiego di fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi, alle emissioni in atmosfera di gas e agli scarichi nelle acque, alla produzione di rifiuti tossici e all’immissione nell’ambiente di prodotti inquinanti, allo smaltimento degli abiti (avviati in discarica o inceneriti).

Molti stabilimenti tessili tuttora utilizzano tutta una serie di sostanze tossiche e altamente inquinanti: alchilfenoli, ftalati, ritardanti di fiamma bromurati e clorurati, coloranti azoici, composti organici stannici, composti perfluoroclorurati, clorobenzeni, solventi clorurati, clorofenoli, paraffine clorurate a catena corta e metalli pesanti come cadmio, piombo, mercurio e cromo VI.

Illuminante in tal senso è stata la campagna "Panni Sporchi" promossa da Greenpeace nel 2011, quando nelle acque reflue delle fabbriche in Cina si scoprì la presenza di alcune sostanze tossiche particolarmente nocive per l’ambiente e le persone.

Quali sono i danni?

Queste sostanze, non essendo biodegradabili, finiscono con accumularsi nelle acque di scarico degli stabilimenti e delle nostre case mediante il lavaggio degli abiti.

Un altro fattore di rischio determinato dall’impiego di queste sostanze è il bioaccumulo, ovvero quel processo attraverso il quale si agglomerano sulla pelle causando l’insorgere di gravi patologie. Esiste, infatti, una legislazione a livello europeo che ne limita rigidamente l’uso in quanto alcune di queste sono potenzialmente cancerogene o agiscono sul sistema ormonale modificandolo geneticamente.

MODA ED ETICA DEL LAVORO

moda sostenibile abbigliamento eticoL’impatto sociale dell'industria della moda è caratterizzato da abusi sul lavoro, retribuzioni troppo basse, orari di lavoro eccessivi, straordinari forzati e mancanza di sicurezza sui posti di lavoro.

Il termine “moda etica” è iniziato a circolare fra i più a seguito della tragedia di Rana Plaza, in cui il 24 aprile del 2013 crollò a Dacca una palazzina di otto piani dove erano collocate 5 diverse fabbriche tessili di abbigliamento per marchi internazionali. Nel crollo dell’edificio morirono 1.129 persone e ne rimasero ferite più di 2.500. Nei giorni precedenti questa tragedia, erano apparse delle crepe nei muri degli edifici e gli operai avevano espresso i loro timori. Era stato loro imposto di tornare al lavoro, sebbene i negozi e le banche al piano terra del complesso fossero stati chiusi chiuso. Non sono stati solo i dirigenti, ma le scadenze e le quote di potenti società che hanno portato a quel fatidico giorno. È stato il ritmo insaziabile dell'industria della moda che ha costretto questi lavoratori dell'abbigliamento a continuare a lavorare, la mancanza di rappresentanza sindacale che li ha lasciati impotenti di fronte a simili ordini, mentre la mancanza di trasparenza della catena produttiva ha consentito ai marchi coinvolti di evitare la responsabilità.

Solo a seguito di questa terribile tragedia il mondo ha iniziato a rendersi conto delle conseguenze umane del frenetico mercato della moda.

I dati dell’industria tessile, infatti, sono allarmanti.

Dalle indagini condotte dal movimento internazionale Fashion Revolution emerge come in Guandong, in Cina, le giovani donne facciano fino a 150 ore mensili di straordinari. Il 60% di loro non ha un contratto ed il 90% non ha accesso alla previdenza sociale. In Bangladesh i lavoratori che realizzano indumenti guadagnano 44 dollari al mese (a fronte di un salario minimo pari a 109 dollari). Ancora, sempre Fashion Revolution ha stimato nel corso di un’indagine condotta su 91 marchi di abiti che solo il 12% di questi abbia intrapreso azioni dirette a garantire un salario minimo legale per i propri lavoratori. ll Bangladesh Child Right Forum stima che siano 7,4 milioni i bambini bangladesi costretti a lavorare fin da piccoli per contribuire al mantenimento delle proprie famiglie, divenendo vittime di abusi e torture nel 17 % dei casi.

MODA - FASHION REVOLUTION WEEK

moda sostenibile abbigliamento eticoNel corso degli anni sono nati diversi progetti diretti a promuovere lo sviluppo delle comunità nel terzo mondo con il proposito di dare autonomia lavorativa alle comunità locali; progetti di impresa in cui l’intero ciclo di produzione è realizzato rispettando i diritti dei lavoratori coinvolti; imprese dirette a raggiungere una riduzione, riuso e riciclo delle risorse nell’intera filiera ed imprese che utilizzano fibre biologiche e biodegradabili o tinture naturali.

Emblema della lotta alla moda non sostenibile è la Fashion Revolution Week, che da otto anni a questa parte si tiene nel mese di aprile in memoria della tragedia di Rana Plaza.

Quest’anno è stato chiesto al settore e ai governi di riconoscere l’interconnessione tra diritti umani e diritti della natura e la settimana è stata caratterizzata da numerosi appuntamenti, talk, tavole rotonde e dirette social . Si è parlato di innovazione sostenibile, artigianato locale, patrimonio culturale locale, modelli di business rigenerativi ed equi e nuove tecnologie di oltre 60 designer provenienti da 21 Paesi in Europa, Africa, Asia e Sud America.

Uno degli obiettivi della Fashion Revolution Week 201 è stato anche quello di coinvolgere chiunque volesse partecipare attivamente alla «rivoluzione». Ad esempio sono entrati in tendenza gli hashtag #WhoMadeMyClothes e #WhatsInMyClothes sui social, son i quali si è cercato di sensibilizzare i brand sui processi produttivi e invitandoli ad una maggiore trasparenza.

Ognuno può e deve fare la sua parte. Da quel 24 aprile 2013 sono stati fatti alcuni passi avanti ma le condizioni dei lavoratori lungo tutta la supply chain della moda globale – soprattutto in quei Paesi dove il costo della manodopera è molto basso – sono spesso ancora inaccettabili. E lo sono a causa del peso schiacciante deivolumi degli ordini, dei termini di consegna troppo ravvicinati, dei prezzi costantemente al ribasso e della mancanza di garanzia sulle commesse, che costringono molti fornitori al perdurare di certe violazioni. Specialmente per quanto riguarda i salari e gli orari di lavoro.

Anche se sono state tante le promesse dei marchi all’inizio della pandemia, che auspicavano un ritorno a ritmi più lenti di produzione, è necessario un ripensamento globale del concetto di responsabilità e sostenibilità. Da parte di tutti: brand, fornitori e consumatori. Perché, come ha spiegato bene nel suo libro Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution Italia, «la rivoluzione comincia dal tuo armadio».

LE CERTIFICAZIONI PER LA MODA SOSTENIBILE

moda sostenibile abbigliamento eticoA confermare la provenienza e la natura dei materiali impiegati per l’abbigliamento sostenibile, esistono delle certificazioni rilasciate da entità locali o internazionali che garantiscono ai consumatori l’acquisto di prodotti realizzati nel totale rispetto degli standard di sostenibilità ambientale e sociale.

Certificazione Gots, Global organic textile standard

La Global organic textile standard (Gots) è leader mondiale nella definizione dei criteri ambientali e sociali che devono guidare la produzione e la lavorazione delle fibre organiche, dalla raccolta all’etichettatura del prodotto finito. Sviluppata da una serie di organizzazioni operanti nell’agricoltura biologica, la Gots controlla ogni minimo anello della filiera tessile con l’intento di verificare la totale assenza di sostanze chimiche non conformi ai requisiti base sulla tossicità e sulla biodegradibilità.

Certificazione Ocs, organic content standard

Promosso dall’associazione Textile exchange, che si occupa di individuare e condividere realtà meritevoli all’interno dell’industria tessile e dell’abbigliamento, il certificato Organic content standard (Ocs) è una garanzia per i consumatori che intendono acquistare capi fatti con materie prime di natura organica. Si tratta di una validazione del contenuto dichiarato dalle aziende di moda produttrici in merito alla provenienza delle fibre naturali da agricoltura biologica e alla loro tracciabilità lungo tutto il processo produttivo.

Certificazione Grs, Global recycle standard

Global recycle standard (Grs) è una certificazione che viene applicata non solo ai prodotti ma anche alle aziende produttrici che utilizzano materiali riciclati all’interno delle loro creazioni. Il certificato, sviluppato dall’ente Textile exchange e gestito in Italia da Icea (Istituto per la certificazione etica e ambientale), ha infatti il compito di dimostrare che i materiali dichiarati cento per cento riciclati siano stati effettivamente ottenuti da scarti lavorati attraverso processi ecologici.

Certificazione Fsc, Forest stewardship council

Specifico per il settore forestale e per i prodotti derivati dalle foreste, legnosi e non, il certificato rilasciato dal Forest stewardship council (Fsc) attesta che la materia prima impiegata nel capo d’abbigliamento proviene da foreste gestite in maniera responsabile nel totale rispetto dei lavoratori, degli abitanti e del territorio.

COME MIGLIORARE IL NOSTRO APPROCCIO AL MONDO DELLA MODA?

moda sostenibile abbigliamento eticoVestire sostenibile vuol dire preferire quei marchi e quelle aziende che hanno optato per scelte di produzione etiche e sostenibili sia a livello di produzione che a livello di vendita dei capi.

Fondamentale è prestare, quindi, attenzione alle certificazioni (v. sopra).

Molti brand hanno deciso di certificare le proprie linee di abbigliamento, anche alcuni molto noti come Benetton, Zara, H&M, Nike, Mango, Levi’s, Adidas, Valentino e Timberland. A fianco ad esse esistono numerose piccole e medie aziende di abbigliamento ecosostenibile che investono nella ricerca di nuovi tessuti naturali, riducono l’acqua e la CO2 emessa durante alla realizzazione dei capi e ricorrono solo ad energia pulita per garantire un prodotto non solo green ma anche di qualità.

Se mutano i comportamenti di acquisto di ogni singolo consumatore, anche gli stessi produttori dovranno cambiare. La battaglia per una moda più etica è lunga, ma non impossibile.

Anche tu puoi rivoluzionare il tuo armadio: compra meno, meglio e fallo durare. Non buttare ma ricicla e, quando entri in un negozio, chiedi garanzie.

È importante dare precise regole al settore tessile come quelle che vengono seguite nel settore alimentare o della cosmesi. Quello che indossiamo sulla nostra pelle deve essere a norma. Rivolgiti ai negozi che vendono tessuti prodotti con sostanze naturali come quelli realizzati a partire dagli scarti delle bucce d'arancia o dalla lavorazione del vino con un occhio a tutto quello che la natura ci offre.

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#ModaSostenibile #VivereGreen #Sostenibilità #ModaEtica #thelifeofabee

 

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